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Fame, non nel senso del musical.

A quindici anni ho preso la mia prima sbronza.
Non la smettevo più di bere da quella bottiglia verde bassa e larga, con etichetta a caratteri gotici dal nome impronunciabile e illeggibile. Ora che so leggere l’ho imparato bene : Jaegermaister, dolce e forte. Non esattamente un aperitivo.

Fu anche la prima volta dove presi coraggio , imbracciai la chitarra elettrica e mi cimentai nel blues che da sempre, come nei riguardi di Hendrix il marziano,cerco di toccare il meno possibile per quanto possa farlo uno che di mestiere suona la chitarra e gli amplificatori a valvole. Di filologico con il blues ho solo la malinconia congenita, il resto non ho idea di come esca fuori da quelle manine.

Ero in camera mia, con Valerio accanto che godeva come un caimano e la sua chitarra classica . Insomma, la jam venne bene, eravamo piuttosto cotti ma furono le prime note con cui capìi che cosa volesse dire suonare condividendo intimamente.
Gioia pura, assolutamente da ripetere.
Ma provoca dipendenza, e le crisi di astinenza sono brutte.
Hai la sensazione della fame, vera.

Eravamo in tanti e a fine serata non la smettevo più di implorare la gente di restare, nonostante gli irriducibili implorati fossero sempre i soliti quattro e il sole iniziasse a scardinarti le palpebre.

Volevo condividere, stare insieme a tutti fino alla fine di tutto. Stare insieme.Suonare insieme ancora e per sempre.
“non ve ne andate” ripetevo “non ve ne andate”.

E poi me ne sono andato io.

Se almeno sapessi dove cacchio mi trovo.

Ho sempre quella fame là. Ma è notte, non c’è nessuno da nessuna parte con cui parlare e questo un pò di fame me la fa passare.


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